Un ottimo cast per Figli di Medea, il lungo cortometraggio firmato da Mauro Di Rosa girato nel sobborgo puteolano di Monterusciello
Il rione Medea è un quartiere come i tanti che si avvicendano intorno e dentro le grandi città. È un’accozzaglia di edifici sconnessi in cui lasciare ingrassare il degrado, spesso il sovraffollamento, di certo la violenza.
Il rione Medea promette svago e relax, ma soltanto a chi ne resta fuori. Perchè la vita è al suo esterno. È al di fuori di quella che negli occhi di Mauro Di Rosa, regista del cortometraggio “Figli di Medea” (opera di recente presentata in una doppia proiezione a Napoli e a Monterusciello, frazione puteolana in cui è ambientato il film prodotto dall’associazione En Art) si fa metafora della terra infelice in cui i campani sono costretti ad abitare. La speranza, alle falde del Vesuvio è un eroe che ha già abbandonato il suo popolo, non vale la pena di agitarsi. È inutile cercare un’occupazione, praticare un lavoro onesto, studiare, scrivere. Già, scrivere. “Che senso ha fare un buon articolo se la gente legge solo i titoli?”, suggerisce in una scena a Michele, uno dei protagonisti della pellicola, il suo direttore- sodale.
Michele è un giornalista, lavora per una piccola testata. Probabilmente lo fa per la gloria, forse per quattro spiccioli. Troppo poco per una coppia di genitori preoccupata e piegata dalla fatica, figlia di un’epoca in cui il sogno è stato tutt’al più una pratica collettiva, di certo non un fatto individuale. Troppo poco per una coppia ripiegata su sé stessa, distratta da quella lotta continua che è diventato il vissuto di ciascuno, in cui i figli fanno quello che vogliono, basta non chiedere.
Troppo per una terra, allo stesso tempo vittima e carnefice che, proprio come per la Medea nella versione di Euripide, uccide i suoi figli, ne calpesta le volontà, ne avvelena le esistenze.
Una visione sconsolata e desolante che non può convincere il pubblico e che pecca nel tourbillon di esistenze descritte e prese a emblema del giro di vite che alimenta il mortale rione (una studentessa, un giornalista e la sua famiglia, il garzone di una salumeria e i suoi amici, un lavoratore agricolo con moglie e figlia) di un’incompletezza di fondo. È come se a “Figli di Medea” mancasse il respiro, costretto in una forma che lo comprime, rendendolo in qualche modo monco. Il film realizzato da Di Rosa, regista con già una lunga carriera alle spalle e collaborazioni importanti (con tra gli altri Nando Paone, Cetty Sommella, Eddy Napoli) appare come un corto che si “atteggia” a lungometraggio, svilendo in toto un’operazione che resta interessante sia da un punto di vista linguistico (dal ricorso alla forma lirica all’inizio e alla fine, a più in generale le scelte da un vista formale che ne rivelano l’ottima fattura), che produttivo (il film, prodotto dall’associazione En Art, impegnata nella realizzazione di progetti artistici votati al sociale, è realizzato con il patrocinio della Film Commission Campania e con i finanziamenti raccolti attraverso una campagna di crowdfunding).
Ottimo il cast che vede in scena Gianfranco Terrin, Pasquale Ioffredo, Antonella Cioli, Enzo Perna e, per la prima volta sullo schermo, la piccola Federica Di Rosa, Antonio Vitale e Imma Di Lillo.
Tra gli interpreti anche Melania Pellino, Carlo Gertrude e Marialuisa Colletta.
Autrice: Michela Aprea