Il 14simo album della band gallese ormai leggendaria fra Galles Gran Bretagna e Irlanda (purtoppo non fanno mai concerti oltre le terre nordiche e la Bretagna francese), The Ultra-Vivid Lament, ha esordito due mesi fa, per etichetta Columbia, nel segno dei record: ha debuttato al numero 1 della classifica UK Albums e sulla Official Vinyl Albums Chart, e numero due su Official Record Store Chart. Ma soprattutto, è il secondo miglior album per vendite della band dopo il loro disco più famoso, This Is My Truth Tell Me Yours del 1998 (quello che contiene le hit note in tutto il mondo If you Tolerate This e Everlasting).
Un esordio così è quanto meno promettente, e all’ascolto non delude. Uscito in edizione deluxe con un altro CD-vinile di sole demo non banali delle canzoni del disco, alla chitarra acustica o al piano, l’album vede anche duetti con Julia Cumming dei Sunflower Bean per il secondo singolo, The Secret He Had Missed, canzone stile Manic-manifesto, e soprattutto con Mark Lanegan per Blank Diary Entry.
James Dean Bradfield, Nicky Wire e Sean Moore, insieme da sempre dopo la scomparsa nel nulla del chitarrista Richey James Edwards agli esordi negli anni ’90, trovano ancora una volta la formula giusta per un loro disco. Scritto, a loro dire, con influenze dei Roxy Music di Eno, dei R.E.M. e di David Bowie, in realtà il disco è pienamente coerente al loro stile e al loro sound (e francamente di quelle influenze poco si nota).
Non però il loro sound degli esordi anni ’90, come per il disco The Holy Bible, per il quale all’epoca sfidarono i Guns’n’ Roses per vendite (ampiamente sconfitti, poi) e lanciavano slogan politici anarchici del tipo “Culture, Alienation, Boredom and Despair” (a dire la verità, anche nei primissimi dischi il loro stile era completamente diverso da quello dei Guns, molto più pop e poco hard-rock), ma piuttosto quello di canzoni come Why So Sad, o Kevin Carter, o Suicide is Painless, ovvero ballate meno rockettare e meno facili all’ascolto ma più tristi e malinconiche.
Non troverete dunque nel disco l’esplosività di You Love Us, o Your Love Alone, o inni alla chitarra come Autumn Song, ma del resto proprio la chitarra viene messa qui in secondo piano per privilegiare il pianoforte, che Bradfield ha dichiarato di aver imparato a suonare e sperimentato durante il lockdown che ha preceduto il disco.
Si sente dunque molto di più il piano, sin dall’esordio melanconico di Snowing in Sapporo, ma il rock-pop dinamico tipico della band non viene meno: lo si ritrova già in Orwellian, primo singolo di impatto, dedicato al tema del lockdown e di come abbia implementato l’isolamento, appunto orwelliano, davanti ai pc, o nella divertente e divertita Don’t Let the Night Divide Us, che pur facendo riferimento a episodi politici (come nello stile tipico della band, da sempre schierata e militante) è in realtà una canzone pop sull’unità e l’amore che vince tutto.
Anche Complicated Ilusions e il secondo singolo The Secret He Had Missed sono su questa scia, come pure Into the Waves of Love o Quest for Ancient Colours. Tutte concepite come singoli, dove però il riff di chitarra è sostituito da un virtuoso pianoforte, over-esplorato da Bradfield visto la sua nuova passione strumentale.
Fanno però da contraltare canzoni più ambiziose, che vogliono essere vere e proprie ballate poli-strumentali, e pezzi più riflessivi e strutturati, come Blank Diary Entry, cantato a due con Lanegan, con una stupenda intro di chitarra acustica, o Afterending, o Diapause, che è uno dei capolavori nascosti del disco.
L’album rappresenta insomma una svolta rispetto al precedente Resistance is Futile, e non ha voluto cadere nella trappola, per i Manics molto tentatrice, di parlare della crisi economica e sociale post-lockdown. Al contrario, Bradfield ha dichiarato che parlare della crisi COVID avrebbe significato “aggiungere insulto alla ferita”. Anzi, la via di fuga “era cercare letteralmente di vedere il mondo intorno non crollare mentre scrivevi una canzone. Scrivere musica era un modo per me per dire “C’è ancora una parte di mondo che lavora come prima anche se in un modo diverso”.
Vi è certamente l’approccio tipico della band, che è sempre stato di natura politico-sociale, nei testi: ma i testi di questo disco evocano piuttosto che denunciare la situazione di crisi attuale del mondo, e evocano soprattutto lo smarrimento, tipicamente post-moderno, della verità e dei punti di riferimento. E’ questo, infatti, che più di ogni altra cosa emerge dalle splendide lyrics di questo disco: e si capisce come questo smarrimento post-moderno di natura sociale ci metta poco a diventare esistenziale.
In una canzone come Orwellian, dato anche il nome e l’ispirazione del pezzo, l’evocazione è vicina alla denuncia, in pieno stile Manic: “Viviamo in tempi orwelliani: è impossibile prendere una posizione con follie che danzano e si nascondono e la verità diventa una bugia spiattellata. Ovunque vai, ovunque ti giri, il futuro lotta contro il passato e i libri cominciano a bruciare”. Così anche in Don’t Let the Night Divide Us, anche se il pezzo denuncia in chiave positiva come si possa sconfiggere la bugia e la divisione: “Dobbiamo rifiutare la propaganda, non possono nascondere la freccia della verità, la luce alla fine ci troverà, non permettere alla notte di dividerci”
Sembra di sentire, sotto, lo sfondo delle manifestazioni no vax, delle terribili divisioni sociali e civili di questo periodo, ma i testi sono stati scritti molto prima degli ultimi eventi di cronaca, e tuttavia il riferimento sociale impegnato è evidente.
Molto più velato è per esempio questo riferimento sociale in Into the Waves of Love, una canzone d’amore, dove pure c’è un passaggio stupendo, di chiara interpretazione dei tempi attuali: “Il silenzio è oggi una liberazione, ora che i possessori di luce sono scomparsi, e il linguaggio è diventato un virus irrazionale con scheletri che si nascondono nella pioggia”.
Un forte messaggio di disorientamento e di post-verità (così la chiamerebbero i sociologi), che fa eco in Quest for Ancient Colour, dove lo smarrimento diventa propriamente esistenziale: “un tempo riuscivo a farmi ragioni di tutto, ora sono confuso, un tempo riuscivo a controllare, ora mi sento usato”.
In queste canzoni il disorientamento dovuto alla propaganda, alla post-verità, alle troppe bugie che si leggono, si confonde col disorientamento personale, che molti testi raccontano, mostrando un lato fragile e intimo dei Manic.
Del resto, una fonte di ispirazione, dolorosa, per il disco è stata anche la perdita di entrambi i genitori per il lyric-maker Nicky Wire, per il quale “Il lockdown mi ha messo davanti i miei personali orrori, piuttosto che quelli là fuori. Le canzoni che ne sono emerse sono perciò galassie interne, di esplorazione di me stesso. Penso siano le parole più intime che abbia mai scritto”.
V sono quindi anche liriche più intime e personali, come in Diapause, o Complicated Illusions, pianoforte al posto della chitarra a fare i riff: c’è molto di nuovo per i Manics in questo disco, anche se pure in passato non erano insoliti a pezzi meno dirompenti. Il sapore di ballad di questo disco è ancora più gustabile attraverso le demo rilasciate nella versione deluxe, che sono quasi sempre asciugate dalla post-produzione e vedono la voce accompagnata da chitarra acustica o piano e niente altro, e danno perciò ancora più un’idea della struttura originariamente melodica e malinconica dei pezzi di questo Ultra-Vivid Lament, che non sarà ricordato fra i capolavori assoluti della band, probabilmente, ma certamente rappresenta un focus particolarissimo e innovativo nella loro discografia. E trovare nuove strade, quando sei già una band di trenta anni di folgorante carriera, e riuscire a farlo bene, certamente non è da tutti.
https://www.manicstreetpreachers.com/
autore: Francesco Postiglione