Jonathan Cohen e Mark Wilkerson – PEARL JAM TWENTY, Rizzoli, 386 pagine, 45 euro (supervisione Claudio Todesco)
autore: Alfredo Amodeo
Non sono stato un grande fan dei Pearl Jam. O almeno non lo sono stato agli inizi. A me piacevano più i Nirvana. Per chi ha vissuto come me il boom grunge, per chi in quei primi anni ’90 aveva tra i 15 ei 25 anni, ascoltare Cobain & soci era un bisogno, una necessità forte. La loro musica rispondeva a qualcosa di sincero, rispecchiava perfettamente i turbamenti e le angosce di quel momento. Un momento in cui fu chiaro a tutti noi che saremmo stati la prima generazione costretta ad arrancare in salita, a ritrovarsi in un limbo indefinito senza la prospettiva certa di riuscire a trasformare i propri sogni in realtà.
In quei giorni i Nirvana erano qualcosa di necessario, sia per chi, come Cobain, li concepiva come strumento di alienazione dei propri demoni, sia per il rock stesso che godeva allora di pessima salute. Non credo che avrebbero mai potuto diventare un fenomeno di routine e di fatto dopo “Nevermind” si erano già esauriti definitivamente. Loro erano Cobain, nel bene e nel male, negli eccessi e nella perfezione delle sue canzoni. Cobain orientava gli umori e nessuno osava metterlo in discussione.
Purtroppo si era già disamorato della musica, come di tutto il resto. Certamente in quel mio iniziale rifiuto aveva influito l’opinione di Cobain. E’ inutile dire che io come ogni altro fan ossessivo, avevo di conseguenza elaborato un sistema di preferenze e di rifiuto assai radicale.
E’ risaputo come non amasse i PJ che, ai suoi occhi, rappresentavano la parte meno onesta della scena di Seattle. Lui aveva un’idea del grunge come stile con caratteristiche specifiche e il rock di dei PJ non rientrava in quei canoni e per questo non lo considerava grunge: << Gradirei dissociarmi definitivamente da quella band e da altri gruppi del genere, come i Nymphs e qualche altro criminale pari loro. Sento il dovere di mettere in guardia i ragazzini nei confronti di questa falsa musica spacciata come alternativa >> (intervista a Michael Azzerard, Rolling Stone, 16 aprile 1992).
Su affermazioni come queste tanti cominciarono a ricamare, da questo punto di vista si sa, la storia del rock è stata attraversata da tanti dualismi, alcune volte creati dalla stampa perché la metafora dello scontro aiuta a render più forte un discorso, altre dalle case discografiche che, tutto sommato, ritengono che la cosa possa aiutare ad accrescere la visibilità di un gruppo o di un artista.
Personalmente, sulla passione e l’approccio verso la musica dei PJ mi sono ricreduto ben presto. Loro negli anni sono maturati e cambiati mentre molti si sono persi. Erano mente, cuore e cervello e sono stati in grado di percorrere la loro strada meno a fior di pelle, forse anche grazie a Cobain stesso che estremizzò tutto con la sua morte, trasformandosi lui in un icona generazionale. Eddie Vedder d’altra parte è sempre stato più solare e rassicurante, con un’etica professionale che è stata da esempio per tanti. Dei PJ avrei voluto scrivere tante volte, mi sembrava una forma di risarcimento ma alla fine mi ero sempre trattenuto.
Pearl Jam Twenty di Jonathan Cohen e Mark Wilkerson, mi sembra invece oggi l’occasione giusta. Il volume è infatti stato pubblicato per celebrare il 20° anniversario del loro debutto discografico e ricostruisce, grazie ad una quantità impressionante di materiale, foto personali, note, disegni, manifesti, copertine dei dischi, scalette di concerti e testimonianze di amici, gli eventi che li hanno portati a trasformarsi nella più grande band americana di tutti i tempi.
Il volume è, tuttavia, molto più di una semplice celebrazione agiografica, quanto piuttosto una testimonianza fondamentale attraverso cui rileggere la nascita e l’evoluzione della scena Grunge oltre a due decenni di musica.
La storia dei Pearl Jam parte da lontano e si intreccia in maniera profondo con la scena di Seattle.
Il Grunge affondava le sue radici nella società del Nordovest, caratterizzata alla fine degli anni ‘80 da piaghe come la povertà, la disoccupazione, la droga. La città di Seattle in particolare era in quegli anni un centro privilegiato di consumo di eroina.
I giovani per sfuggire alla noia e al male di vivere si rifugiano nella musica, dando vita ad una scena musicale fortemente localizzata che prese il nome di Grunge, un termine che significava sporco, sudicio. I gruppi, formavano una comunità unita che frequentavano gli stessi locali e si contraddistingueva per caratteristiche essenzialmente estetiche: i capelli lunghi, i jeans strappati, scarpe da ginnastica, t-shirt sdrucite e pesanti camicie di flanella a quadri.
Dal punto di vista musicale era invece molto più complesso trovare una linea comune. La categoria del Grunge fu infatti utilizzata in modo abbastanza indiscriminato per catalogare qualunque band con un sound basato su di un mix molto variabile di hard rock, metal e punk. In realtà più che di un vero e proprio genere sarebbe più corretto parlare di movimento, perché le band più che la stessa formazione musicale avevano in comune la stessa collocazione geografica e lo stesso approccio verso la musica e della vita.:<< Tutti erano in una qualche band. Non è che ci si aspettasse chissà che, nessuno veniva messo sotto contratto. Molti di noi non sapevano nemmeno suonare sul serio! Però quel che avevamo lo mettevamo sul tavolo e questo creava strane combinazioni di persone che suonavano insieme e che rischiavano il tutto per tutto. Tanto non avevano niente da perdere >> (Stone Gossard).
Forti legami vi erano con la scena underground che si era andata organizzando, per tutti gli anni ’80, sulla base di un approcio Do it yourself. Black Flag, Hüsker Dü, Minor Threat e Butthole Surfers avevano creato un circuito che non aveva niente a che vedere con le major discografiche e l’industria musicale del tempo, le band di Seattle si posero sostanzialmente in continuità con questo filone portandone la carica di energia e lo spirito di indipendenza alle estreme conseguenze.
Nel 1984, il bassista Jeff Ament, Mark Arm (futuro leader dei Mudhoney) e il chitarrista Stone Gossard si ritrovarono a formare i Green River, una band che può a buon ragione essere considerata come una delle esperienze seminali del Grunge.
Nel 1987 i Green River si sciolsero, e dalle loro ceneri presero vita i Mother Love Bone, composti da Stone Gossard, Jeff Ament, Andy Wood, Bruce Fairweather e Greg Gilmore. Per tanti, all’inizio del 1990 i Mother Love Bone rappresentavano il futuro della scena di Seattle. Dopo l’Ep Shine del 1989, il gruppo stava preparando l’album di esordio, (Apple), ma il 16 marzo 1990, pochi giorni prima della pubblicazione dell’album, la morte di Andrew Wood, a seguito di un overdose, segnò la fine della band. Nonostante il contratto con una major e la pubblicazione postuma dell’album, i componenti della band, distrutti dal tragico evento, decisero di abbandonare. La morte di Andrew Wood aveva prodotto dolore e disorientamento, ma Seattle era già sotto la lente dei media e in pieno fermento. Ament e Gossard, vennero quindi coinvolti da Chris Cornell (Soundgarden), insieme con il chitarrista Mike Mc Cready e il batterista Matt Cameron (Soundgarden) in un progetto dedicato alla memoria dell’amico scomparso: i Temple Of The Dog (mutuando il nome da una strofa di una sua canzone).
Un demo con del materiale inciso da Gossard e Ament per i Temple Of The Dog, finì nelle mani di Jack Irons (ex batterista dei Red Hot Chili Peppers) il quale lo passò ad un amico che lavorava a San Diego in una pompa di benzina e trascorreva il suo tempo libero facendo surf e cantando in una band locale. Il suo nome era Eddie Vedder.
Nel giro di pochi giorni Vedder rispedì il nastro a Seattle dopo aver scritto e inciso di getto i testi di quelle che, di lì a poco, sarebbero diventate Alive, Footsteps e Once oltre a Times of Trouble che finirà invece su Temple Of The Dog e fu quindi prontamente invitato a trasferirsi a Seattle, per unirsi anche lui ai cinque musicisti in studio: << La prima volta che Ed venne in studio aveva addosso una t-shirt dei Butthole Surfers. Portava i capelli lunghi rasati ai lati, indossava bermuda tagliati e anfibi Doc Martens piuttosto consunti, era abbronzato vivendo in California. L’avevo sentito cantare sul demo e quindi sapevo che aveva una voce fantastica ed eccitante, però mi chiedevo che aspetto avesse. Fisicamente era più o meno come me, basso e senza pretese, ma quando apriva bocca tirava fuori una voce tonante. Ero entusiasta. Non si sentiva perfettamente a suo agio, quindi stava fermo e compassato, non si muoveva come adesso. Stava lì impalato e cantava con quella voce incredibile. Ero rapito. Sapevo che quello era uno di quei momenti che a una band capitano una volta nella vita. Era il pezzo mancante. Eravamo in cinque ed eravamo pronti a darci dentro: Ed era la persona che avrebbe potuto portarci nella terra promessa. Non immaginavo che avremmo avuto tutto quel successo, ma sapevo che per le mani avevamo qualcosa di buono >> (Mike Mc Cready).
Terminate le registrazioni dedicate a Andy Wood ed ancora colpiti dall’impatto che il californiano aveva avuto su di loro, Stone Gossard, Jeff Ament con Mike Mc Cready e un nuovo batterista Dave Krusen, nell’arco arco di pochissimo tempo, si chiusero nuovamente in uno studio per registrare questa volta il primo album di una nuova band. Inizialmente il nome scelto fu quello di Mookie Blaylock, in onore di un famoso giocatore di basket, alla fine tuttavia si virò su Pearl Jam, in riferimento a una particolare marmellata allucinogena che la nonna di Vedder (Pearl) preparava con il peyote: << Prima facemmo un po’ di demo nella nostra sala, la Galleria Potato Head. Quando registrammo Ten portammo le idee cui avevamo lavorato Stone ed io, i pezzi cui ci eravamo dedicati con Jeff e su cui Ed aveva cantato nella prima settimana – Alive, Once, Jeremy e un altro paio che non entrarono nel disco finale. Eravamo al London Bridge Studio a nord di Seattle: registravamo un pezzo e facevamo le sovraincisioni lo stesso giorno, o quello dopo. Facemmo Even Flow 50, forse 70 volte. Giuro su Dio che è stato un incubo. L’abbiamo suonata e risuonata finché a odiarci l’un l’altro. Penso che tutt’oggi Stone non sia soddisfatto di com’è venuta. È stato forse l’ostacolo più grande da superare, ma ricordo che era eccitante stare per la prima volta in un vero studio>>(Mike Mc Cready).
Ciò che bolliva in pentola era qualcosa di molto interessante lo dimostrò la prontezza con cui le major si contesero quei nastri ed il futuro dei ragazzi stessi.
Tra il marzo e l’aprile del 1991 vengono effettuate le registrazioni di Ten. L’album venne pubblicato dalla Sony il 27 agosto, un mese prima di “Nevermind”, anche per questo motivo fu considerato da alcuni come la mossa di una major per monopolizzare la scena emergente. All’inizio sembrò che Ten non funzionasse, la gente e i media, si accorsero infatti di Alive e Jeremy solamente dopo la deflagrazione di Smells Like Teen Spirit. Tuttavia nel giro di poco tempo anche il lavoro dei PJ finì per scalare le classifiche, trasformandosi in un successo clamoroso (12 milioni di copie solo negli States), oltre a venir riconosciuto non solo come uno degli album essenziali del grunge, ma in assoluto, uno dei più importanti di tutti i tempi. Indubbiamente il suono dei PJ, sebbene non disdegnassero puntate stilisticamente rabbiose e decise, si discostava in maniera decisa da quello degli altri gruppi di Seattle.
I PJ avevano poco a che vedere con la furia punk dei Nirvana o con il suono heavy di Alice In Chains e Soundgarden. Musicalmente le radici erano negli anni ’70: le influenze erano quelle degli Who (uno dei gruppi preferiti di Vedder) e dei Led Zeppelin, per non parlare del Neil Young più elettrico. Tutto ciò non toglie che l’humus creativo della band pescasse nelle stesse atmosfere malinconiche e disilluse tipiche del Grunge.
I testi di Ten narravano, infatti, di oscure vicende adolescenziali con un tono di disperata impotenza e rassegnazione: Alive raccontava di un ragazzino che scopriva come suo padre fosse in realtà il suo patrigno (la storia semi-autobiografica di Vedder), Even Flow era una canzone sui senza tetto, Why Go sugli istituti psichiatrici e Jeremy si ispirva alla storia di Jeremy Wade, un ragazzo di 15 anni che si era suicidato a scuola.
Anche il secondo lavoro VS seguì questa scia, pur con un suono più crudo e violento, oltre a ritagliare uno anche spazio ad alcune ballate.
Accanto a momenti più tirati come la sofferta e particolarmente sentita Dissident e la notevole Rearviewmirror o come Leash e Blood dove la filosofia grunge viene sposata appieno, VS presentava anche gioielli acustici come la bellissima Daughter, la dolce e malinconica Elderly woman e l’introspettiva Indifference.
VS fu un altro successo e soprattutto fu chiaro che i fan del Grunge non condividevano le riserve espresse da Cobain. L’album vendette nella prima settimana di pubblicazione più di cinque volte (quasi un milione) rispetto a In Utero (200.000 copie): << Credo che Kurt non ci avesse capiti all’epoca, ma poi siamo diventati amici e sono felice di aver avuto con lui alcune magnifiche conversazioni, che conserverò per sempre qui dentro (…) Non parlo molto di lui in rispetto a Krist Novoselic e Dave Grohl e so che ha detto quelle cose all’inizio sul fatto che non gli piacevamo. Ma ci sono un paio di complimenti che mi ha fatto in pubblico, relativi a me come essere umano, dei quali sono orgoglioso. Ma se Kurt fosse qui oggi, so che mi direbbe bravo ti sei rivelato uno ok >> (Eddie Vedder).
L’improvviso ed enorme successo cominciò a creare delle tensioni tra la band e l’industria musicale, soprattutto per la crescente insofferenza nei confronti dei suoi meccanismi promozionali. I PJ cominciarono a rifiutarsi di realizzare video sullo stile MTV, di concedere interviste e tentarono di evitare la distribuzione dei biglietti di Ticketmaster, la società che gestiva negli USA i loro tour, accusandola di gonfiare il costo dei biglietti.
La disputa con la Ticketmaster non fu l’unica scomoda presa di posizione scomoda di Vedder & soci. Nel 2000, durante la campagna presidenziale vinta da George W. Bush contro Al Gore, Vedder si impegnò a fondo in favore di Ralph Nader, girando l’America per una serie di concerti di sostegno, durante i quali si trasformò in un moderno Woody Guthrie. Durante questi concerti il leader dei PJ interpretava sul palco oltre ad classici della band, un pugno di canzoni inedite (alcune delle quali sarebbero poi finite su Riot Act), e una serie di cover rivelatrici come Gimme Some Truth, un brano scritto 30 anni prima da John Lennon contro il presidente Nixon.
Infine la tragedia del 30 giugno 2000 al festival di Roskilde.
I Pearl Jam non vi partecipavano da cinque anni. L’ultima volta erano stati il supporto di Neil Young, quell’anno, invece l’attenzione era tutto per loro. Sul palco era una festa, c’era uno dei gruppi più amati e rispettati del momento, sotto il palco, in un pantano scivoloso, migliaia e migliaia di giovani arrivati anche da ogni parte de’Europa. La pressione delle migliaia di persone presenti quella sera era insopportabile già prima che la band salisse sul palco. Circa tre quarti d’ora dopo l’inizio del concerto, durante l’esecuzione di Daughter, nove ragazzi vennero travolti: << Nella nostra vita c’è un prima e un dopo Roskilde. E’ stata la peggiore esperienza che abbia mai avuto, sto ancora tentando di venirne a capo. Appena prima di salire sul palco quella sera avevamo ricevuto una telefonata. Chris Cornell e sua moglie Susan avevano appena avuto una figlia. Anche uno dei nostri tecnici del suono era andato via il giorno prima perché stava per avere un bambino. Mi veniva da piangere, ero così felice. Salimmo sul palco con quei due nomi in testa. E 45 minuti dopo tutto era cambiato. (…..) Lasciammo la Danimarca con la convinzione che non avremmo mai più messo piede su un palco. Furono i padri e le madri di quei nove ragazzi morti in maniera tanto assurda a darci la forza di andare avanti; i nostri figli vi amavano, ci dissero, onorate il loro ricordo continuando a scrivere belle canzoni. E’ quanto abbiamo cercato di fare in tutti questi anni » (Eddie Vedder).
L’impatto dell’evento fu tremendo. Qualche ora dopo, sul sito ufficiale del gruppo apparve un breve e sentito comunicato: << E’ così doloroso. Stiamo tutti aspettando che qualcuno ci svegli e ci dica che è stato solo un orribile incubo. E non ci sono assolutamente parole per esprimere la nostra angoscia riguardo i genitori e chiunque amasse le vite preziose che sono andate perdute. Non ci hanno ancora detto quel che è accaduto esattamente, ma sembra che tutto sia successo senza nessun motivo e spaventosamente in fretta, non ha alcun senso. Quando accetti di suonare in un festival così grande e con una tale reputazione è impossibile immaginare che le cose vadano a finire in modo così straziante. Le nostre vite non saranno più le stesse, ma sappiamo che non è niente al confronto del dolore delle famiglie e degli amici delle vittime. È così tragico e non ci sono parole >>.
Le due rimanenti date europee vennero cancellate. Il tour americano, la cui partenza era prevista circa un mese dopo, messo in forse. La pubblicazione del singolo Light Years rimandata.
Dopo quasi vent’anni i Nirvana sono parte della storia. Gli Screaming Trees non esistono più. I Soundgarden e gli Alice In Chains si sono riuniti, quest’ultimi senza Layne Staley, morto d’overdose.
In una scena spesso popolata da personaggi senza spessore i PJ ci ricordano che dietro ogni loro storia ci sono sudore e lacrime, responsabilità e scelte e che il rock trasuda passione, rabbia e bellezza.
Come cantava Vedder in Vitalogy: << All that’s sacred comes from youth/Dedication, naive and true/With no power, nothing to do / I still remember, why don’t you…don’t you >>.
Quella dei PJ è davvero una gran bella storia, sincera e appassionata e questo libro c’è la restituisce appieno.