La cantante italo-britannica torna, a quattro anni dall’EP di cover di David Byrne, con un lavoro che in qualche modo è di rottura. Si tratta di un disco nel quale la tematica dominante è quella delle ambiguità sessuali e della parte maschile che emerge nelle donne. Ovviamente niente di nuovo sotto il sole, dato che oltre quattro decenni fa tutto il glam rock, da David Bowie ai New York Dolls, ci aveva abbondantemente illustrato un vasto universo di bellezze androgine. Ma l’esigenza della Calvi evidentemente è dettata dalla percezione di un tentativo di restaurazione di certi uomini politici e di una parte, del mondo religioso.
Anche in questo lavoro emergono i paragoni con PJ Harvey e con i Bad Seeds, non solo perché nel sexy-blues di “Indies of Paradises” suona il Bad Seed Martyn Casey o perchè l’album è prodotto da Nick Launay (in consolle anche con i Grinderman di Nick Cave), ma perché l’irresistibile “Wish” mette insieme la prima PJ e la band di Cave quando si dirige verso ritmiche ansiogene. Tuttavia c’è da considerare che se il background e l’approccio al rock di Anna Calvi è lo stesso che appartiene a quei mostri sacri, per cui l’apprezziamo, il suo lavoro non è derivativo,. La sua personalità emerge in maniera prepotente basta ascoltare l’alt-pop colto di “Don’t beat the girl out of my boy”, la melodia avvolgente, estesa e totalizzante della title-track o le schegge della suadente “As a man”, passando per la scarnificata ballata di “Away”.
Hunter è un disco dove la Calvi, sia come tematiche che per gli aspetti musicali, ha voluto trasmettere i tanti risvolti dell’ambiguità, ponendosi come rocker, ovvero non dando risposte, ma innescando tanti quesiti nell’ascoltatore.
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autore: Vittorio Lannutti