Per quanto un orecchio attento ed esigente nella ricerca possa addomesticarsi ai suoni meno convenzionali e difficili, quando non astrusi, è probabile che anche nel 2050 non si possa fare a meno di lasciarlo “riposare” al fresco di un bel canto, possibilmente femminile. Ma anche se non possiamo ancora permetterci di tracciare il profilo della chanteuse del futuro, il presente lancia dei buoni spunti.
Mara Carlyle, ad esempio. Già ammirevole nel modo (roba “da farsi il mazzo”) in cui ha concepito questo debut album (approdato da subito all’ascolto di Matthew Herbert – bel colpo…): scritto nei tempi morti in corsia (di ospedale), registrato a casa su un 4 piste, poi (ri?)arrangiato e prodotto con i Plaid e lo stesso Herbert – con entrambi i quali Mara si era già fatta viva nel recente panorama delle releases. Cosa (non ) si fa per una passione sbocciata in tenera età e sviluppata tanto nel punk quanto in chiesa, quanto ancora nel jazz e nel bluegrass.
La storia si evolve, anche per Mara. “The Lovely” è, senza mezzi termini, la voce di un canto che tutto è fuorchè maniera, ma espressione di un’anima affannata dagli ostacoli della vita, eppur fornita di quegli spiragli di luce che di tali ostacoli rappresentano anche più di una semplice speranza di superamento. Un’inquietudine malinconica ma soave, e tutto sommato ottimistica.
Canto come perno di questo disco, si è detto. Il substrato sonoro più frequente è rappresentato dagli arrangiamenti di archi delle torch song di un tempo (‘I Blame You Not’, ‘Bravely Born(e)’, la conclusiva ‘For Me’), con cui Mara “precede”, idealmente, tanto il vocal jazz quanto la pop song “matura” alla Bacharach, ma anche dai “para-spiritual” (‘Bonding’, ‘June’), in cui l’apporto strumentale tende a rarefarsi per dare ancor maggiore peso specifico all’ugola.
Gli stati d’animo che emergono vengono sapientemente alternati affinchè ognuno degli episodi di “The Lovely” riesca a lasciare un segno nell’ascolto. Finora tali mood non sembrano molto dissimili tra loro, ma non abbiamo ancora considerato le altre sfumature del ventaglio stilistico di Mara: l’appeal moderno e tiepidamente elettronico – tra Portishead e Leila – di ‘Alive’, ‘Baby Bloodheart’, soave e carezzevole lullaby, ‘It’s Time’, bucolica e aerea, ‘Pianni’, sorta di “manuale piano-voce”, ‘Lost to Sea 15’, forse l’unica vera – come struttura – canzone. E dire che tutto era cominciata con le timide sperimentazioni di voce e sega (avete letto bene… è quel sinuoso zufolare) di ‘Saw Song’. Ma è sempre la stessa storia: bisogna andare fino in fondo. Con l’ascolto e, come insegna Mara, con le nobili ambizioni.
Autore: Bob Villani