Tutti i grandi cantautori prima o poi tornano alle loro radici, alcuni prima di riprendere contatto con il proprio passato ancestrale devono tanto viaggiare, ma comunque ci tornano. Vinicio Capossela è uno di questi artisti che hanno fatto della ricerca un punto fermo dato che prima di riappropriarsi delle sue radici ha dovuto andare molto lontano prendendo il largo come Ulisse, confrontandosi con il mambo e con il blues, con il jazz e con il rock, con i freak e con i pianoforti di Lubecca. Capossela ha combattuto insieme ad Acab contro Moby Dick, si è lasciato affascinare dal cha-cha delle meduse e dalle sirene, ha viaggiato lungo i Balcani con i gitani, è rimasto incastrato nella Contrada Chiavicone ed è voluto entrare nelle viscere della crisi greca, ma alla fine ha riportato tutto a casa.
Con “Canzoni della Cupa” Capossela ha risolto tutte le questioni che aveva lasciato in sospeso con la terra d’origine di suo padre: l’alta Irpinia. Come un Alan Lomax o un Claude Levi Strauss o il Freud appassionato di archeologia è andato a scavare profondamente nella sua terra, per farne emergere miti, magie, credenze popolari, suggestioni e tutto ciò che caratterizzava quelle terre agricole. Questo disco, inoltre, giunge dopo la pubblicazione del libro omonimo e del film “Il paese dei Coppoloni”.
“Canzoni della Cupa” è un doppio disco: Polvere e Ombra, registrato in due session distinte, la prima nel 2003 e la seconda a cavallo tra il 2014 e il 2015. Tanti i musicisti coinvolti, oltre al ‘fedele’ Alessandro ‘Asso’ Stefana troviamo ancora una volta i Calexico, Howe Gelb, Los Lobos, Giovanna Marini, Flaco Imenez, Antonio Infantino, Vincenzo Vasi e Glauco Zuppiroli. Le sonorità quindi sono costituite da elementi del folk dell’Italia meridionale, dal blues e dal rock di frontiera. La differenza tra i due dischi è dovuta sia ad una questione stilistica che concettuale. “Polvere” è il lato del sole, del grano, della fatica e dello sfruttamento, si tratta di un lungo viaggio avviato a Cabras, in una Sardegna da western. I brani di questo lato sono tutti ispirati dalla tradizione popolare e scritti da Matteo Salvatore. Qui troviamo diversi brani dedicati alle donne, che siano lavoratrici (“Femmine”), che siano povere e costrette a rapporti sentimentali non voluti (“L’acqua chiara alla fontana”), o fonte di rabbia, perché hanno respinto lo spasimante (“Faccia di corno”). Gli altri temi affrontati in questo sono la povertà nel blues de “Il lamento dei mendicanti”, la precarietà lavorativa ed esistenziale nella cover di Salvatore “Lu furastiero” e il cinismo popolare di “Rapatatumpa”.
Il secondo disco, o lato, “Ombra” è lunare, notturno, da ululati e da rovi. Qua i brani sono di suo pugno, ma si inscrivono nella scia del primo ‘lato’. Tuttavia i testi sono più verbosi e complessi, frutto di una sua rielaborazione di un folk transnazionale intriso di elementi del Sud Italia e dell’America della frontiera. Questo lato si apre con la catartica e scaccia demoni “La bestia del grano”, prosegue con le disavventure del lupo mannaro dell’evocativa “Il pumminale” e con la ninna nanna de “Le creature della Cupa”. Tra i tanti personaggi troviamo anche divinità pagane e religiose (“La notte di San Giovanni”, “L’angelo della luce”, “Componidori”) e prima di giungere alla morriconiana “Il treno”, Capossela ci racconta le tragiche conseguenze dell’amore clandestino di “Maddalena la Castellana” i momenti allegri de “Lo sposalizio di Maloservizio” e tristi de “Il lutto della sposa”.
“Canzoni della Cupa” non è un disco semplice ed essendo complesso, intriso di molti elementi non è semplicemente un disco ma un’opera composta da elementi di antropologia e psicoanalisi junghiana. Un’opera monumentale, sicuramente la più ambiziosa e meglio riuscita in ventisei anni di carriera.
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autore: Vittorio Lannutti