Gli Abbey Road Studios è, probabilmente, la sala d’incisione più famosa al mondo, per le frequentazioni leggendarie dei Beatles e molti sognano di metterci piedi, magari, solo per una rifinitura. Invece, il leader dei Malfunk e componente dei Rezophonic Marco Cocci, si è recato là per ultimare l’incisione del suo primo atto solista “Steps”: 13 brani che inneggiano alla vita con duttile stilismo per un album altamente esplicativo della forte vicenda che lo ha colpito in prima persona e la racconta con un lavoro assemblativo di varia natura, imprimendo alla tracklist sapori di rock, grunge e rigagnoli di sfumature diversificate.
All’allestimento dell’opera contribuisce l’ausilio di fior di musicisti: da Roberto Dell’era (Afterhours) a Fede Poggipollini (prima chitarra di Ligabue) passando per Durga McBroom (orbitante in area Pink Floyd), Lino Gitto (The Winstons), Roberto Angelini, Bobby Solo, Durga McBroom (Pink Floyd, David Gilmour), Vincenzo Vasi (Capossela).
I 13 “Passi” cominciano con la placida opener “While everyone sleep”, imbastita con verace narrato filo-grunge che ricama spaccati ponderativi, mentre “Love song” e “Good day” gongolano con andazzo elastico tra le lande felicemente battute dai Rem, però è d’approvare in pieno un percorso che non si fossilizza mai. Ben vengano, quindi, anche episodi come “White quiet place”, nel quale Marco sfoggia qualità da story-teller con forgiata qualità recitativa. La toccante “Psychology” fa spiccare l’opera tra le alture emotive con eleganza esecutiva e dettagli vibranti. Dopo la minimale “Trouble” disidratata all’inverosimile, si sposta sul versante west-coast di “As the sun” con palese naturalezza, in quanto qualsiasi genere cavalchi il Nostro, sa come gestirlo con esperienza, cercando di mantenere una neutralità emotiva che gli permetta di sorprendere, in primis, se stesso. Invece, “Disappeared” ostenta aspetti testuali dolenti con brevi inserti estranianti. Bastano i due minuti surrealmente mantrici di “Blue boy” per certificare, inopinabilmente, quanto sia estesa l’ecletticità di Marco, cosi come “Days of Grace”: sofferta elucubrazione grunge, evocativa di un Eddie Vedder tribolato ma pienamente lucido dei suoi “credo”.
Al penultimo passo, schiera in campo la splendida ballad “Sleepless man”, sorretta da un’acustica raffinata, pizzicate d’archi e brevi tremolii complementari. Al traguardo dell’opera, chi ci crede che sia “l’ultima canzone persa”? Infatti, riteniamo che, per Marco, cantare e suonare siano arti terapeutiche, fondamentali per bilanciare aghi mentali ed emotivi e quindi consideriamo, appunto, “Last lost song” semplicemente un arrivederci a brevissimo ma, se non fosse cosi, di lui non perderemo sicuramente le tracce: tra teatro e cinema (davanti o dietro le quinte) momenti di buchi creativi ne vedremo pochi ed è giusto che il suo istrionismo non lo porti a decidere una sola strada artistica. Sarebbe come se Fregoli s’ingabbiasse in un unico trasformismo: sai che spreco? Per Marco, la cosa più bella è stata quella di decidere di fare ciò che ha fatto fino ad ora : ebbene, come dargli torto ?
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autore: Max Casali