L’immaginario di coloro non li hanno vissuti è pieno di miti degli anni che vanno dai 60 agli 80 (con Kurt Cobain facciamo anche inizio 90). Sono miti che tagliano trasversalmente i campi della vita, dall’arte alla politica (sempre che non coincidano). Sono luoghi fisici, della memoria e correnti di pensiero, sono persone in carne ed ossa e note su un pentagramma; discorsi storici e tagli su tela, chitarre sfasciate e rapimenti inspiegabili, sono la dolce vita e gli anni di piombo.
Per tantissimi, in particolare, i miti hanno strumenti a corde tra le mani, o voci strazianti che cantano storie nere, “la perdita del controllo, la morte, il fallimento, la follia umana”. Proprio questo cantava Ian Curtis, leader dei Joy Division, band seminale di quel periodo musicale identificato come post punk.
Marco di Marco, giovane scrittore classe ’76, già conosciuto per alcuni dei suoi racconti inseriti in riviste specializzate e antologie (“Voi siete qui” tanto per citarne una), ha raccontato un “mito”, attraverso la lettura dei suoi testi, oltre che del contesto da cui nascevano, quei testi, cercando però di percorrere una strada quasi opposta, non la mitizzazione ma “un tentativo di disinnescare la mitologia”. Ne è uscito “Joy Division. Broken Heart Romance” (Arcana Edizioni, pp. 317, 18,50€), un libro border line, che sta a metà tra la semplice interpretazione dei testi e la biografia, analizzando il contesto storico-culturale-sociale. Un libro che racconta una passione consumata fin dall’adolescenza. Perché “in fondo è così quando ti innamori delle cose, o delle persone. Le consumi”.
Partiamo dal principio. Come nasce il tuo amore nei confronti dei Joy Division? Ma, soprattutto, è amore o ossessione?
La scena punk (e Oi!) e postpunk inglese della fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, ha sempre fatto parte dei miei ascolti. Dai Clash ai Fall, dagli Stranglers ai primi Cure, dai Buzzcocks ai Cock Sparrer. E in generale penso di dovere molto alla musica inglese e al suo rumore bianco. I Joy Division, però, mi avevano subito fatto andare oltre, oltre l’ascolto medio. Sono stati uno di quei gruppi da consumarne i vinili o da repeat sul lettore cd. In fondo è così quando ti innamori delle cose, o delle persone. Le consumi. Il lato ossessivo della cosa stava nel fatto che l’atmosfera sonora e le parole, non solo mi piacevano, ma mi turbavano: questa oscurità sorda, questo flirtare con tematiche border line: la perdita del controllo, la morte, il fallimento, la follia umana. C’era una morbosità avvenente, c’è ancora ogni volta che li ascolto.
Quello che hai scritto non è un libro facile, nel senso che è un commento ai testi ma non solo; è, infatti, anche lo spunto per scavare nella psiche, oltre che nella vita di Curtis. Né mera interpretazione dei testi, quindi, né biografia standard (il sottotitolo è “Testi commentati”). Come nasce e si sviluppa Broken Heart Romance?
Un libro che commenta i testi di un musicista, di un gruppo, non può prescindere, com’è ovvio, da un’analisi del circostante storico, sociale, musicale e personale. Per cui oltre allo spazio specifico dato a ogni singola canzone mi sono servito di capitoli di raccordo sull’ambiente in cui i Joy Division sono cresciuti, sullo svolgersi breve della loro storia, sui circuiti musicali dell’epoca, sui personaggi determinanti nella storia del gruppo (leggi Martin Hannett e Tony Wilson), e di capitoli dedicati agli album nella loro interezza, uno sguardo secondo una prospettiva d’insieme. Il mio intento è stato perlopiù scrivere un libro che si potesse leggere sia in modalità “consultazione”, sia come una storia, nel suo dipanarsi rapido fino alla conclusione di tutta la vicenda. Spero di esserci in qualche modo riuscito.
Dici che “il senso di questo libro è stata la ricostruzione possibile di una poetica, l’esplorazione di un immaginario e di uno stile …”. Come definiresti in una parola il mito Joy Division?
Decadente, ma non per estetica.
“Warsaw, questo inascoltabile, invendibile, ma imprescindibile cimelio”, sono parole tue. Fa quasi sorridere, guardando al rock patinato di oggi, una frase del genere. Potrebbero esistere i JD, quelli più estremi, oggi? Qual è il gruppo, oggi, che secondo te ne raccoglie l’eredità (a livello di icona, non solo musicale).
Mah, non è semplice rispondere: credo che il “radicalismo” della fine degli anni Settanta, nei contenuti e nelle estetiche, sia irriproducibile, soprattutto perché oggi lo showbiz fagocita con molta più velocità qualsiasi fenomeno verace per rielaborarlo e restituircelo in maniera edulcorata, pronta per soddisfare il mercato, o per crearlo. Sicuramente alcune cose nei testi e nella musica degli Interpol o degli Editors, certa quieta disperazione in alcuni brani degli Arcade Fire, suonano familiari alle atmosfere e alle parole dei Joy Division, e sono riflessi inevitabili e gradevoli.
L’interpretazione del testo corre sempre il rischio, come avverti anche tu, di sovrainterpretare il significato globale della poetica di un artista. Come si fa a non incappare o, comunque, a ridurre questo rischio?
Il dato soggettivo e il dato oggettivo, nell’interpretare – nel commentare – un testo, si contaminano vicendevolmente. E forse risiede anche in questo il fascino di una simile operazione. L’importante, secondo me, è sempre dichiarare cosa si sta facendo nel singolo frangente: nel libro, ad esempio, riguardo a una stessa canzone, ci sono imprescindibilmente momenti di analisi del testo che muove strettamente dai singoli versi e si mantiene sul piano dei riscontri oggettivi anche in base alle ricerche fatte, e ci sono, viceversa, momenti di suggestione soggettiva, in cui collegamenti e prospettive partono da riflessioni e digressioni personali.
La tua (nostra) generazione, che era appena nata quando il fenomeno Joy Division scoppiò, vive quegli anni, post punk, come un mito. Come li definiresti?
Probabilmente in quegli anni, dalla metà dei Settanta alla metà degli Ottanta, c’era la sensazione che attraverso “la rottura” con il passato anche recente, in ambito musicale, ma anche politico-sociale, le cose potessero cambiare, e di quegli anni il punk è stato l’urlo di rabbia, mentre il postpunk ne ha cantato il dolore delle ferite e gli inni funebri. Sono stati anni culturalmente o, come amiamo dire, controculturalmente intensissimi. E la nostra generazione, che ne ha appreso l’importanza, la densità, e la scossa emotiva solo in differita, non può che guardare quel periodo con quel rispetto e quell’amara consapevolezza di essere fuori tempo utile.
In tema di demitizzazione invece, personalmente, soprattutto dopo aver scandagliato la vicenda Joy Division in molte delle direzioni possibili, sto cercando di riportare il tutto a una dimensione reale: un tentativo di disinnescare la mitologia. Se vogliamo è una storia quasi antirock, che ha come protagonisti davvero i ragazzi della porta accanto che per bravura e fortuna ce la stavano iniziando a fare. Stiamo parlando di giovani lavoratori, impiegati, fidanzati, sposati, con figli. Che non hanno fatto in tempo a trasformarsi in rockstar (ovviamente non faccio riferimento al post-Curtis e ai New Order, quella è un’altra storia). Stiamo parlando di una vicenda che è nata e si è consumata nella periferia della metropoli – con una morte di quelle che leggiamo nei trafiletti di cronaca nera dei quotidiani – e in quella periferia si è riassorbita. Forse è per quella sua aura di “normalità” che la storia dei Joy Division esercita su di noi un fascino e un turbamento particolari, perché sembrano situazioni che potevano lambire le nostre vite, potevano succedere accanto alle nostre case. Un qualcosa che poteva riguardarci da vicino.
Domanda infame, qual è la tua canzone preferita dei Joy?
Sì, hai ragione, domanda infame. Posso più che altro dirti la canzone che in questi giorni ascolto volentieri, che è appunto These Days.
Ma è vera la storia della dipendenza da Joy Division della tua macchina? Ci racconti?
È una di quelle coincidenze che fanno sorridere: in macchina ho un’autoradio con lettore cd, ma da un po’ di tempo a questa parte si rifiuta di leggere qualsiasi cd – originale o masterizzato. L’unico che continua imperterrito a girarci dentro e suonare è Still, il raccoltone del 1981 che contiene inediti e la registrazione dell’ultimo concerto del 2 maggio 1980 alla Birminghan University.
Autore: Francesco Raiola
www.myspace.com/joydivision – www.myspace.com/iancurtisfilm