Bel personaggio questo Arrington De Dyoniso. Ho avuto la possibilità di vedere dal vivo i suoi Old Time Relijun un paio di volte agli inizi degli anni zero ed ho solo intuito cosa può significare per degli artisti il volersi sentire liberi nelle proprie espressioni.
Un concerto degli O.T.R lasciava il segno come anche il solo ascoltarne un paio di brani su un cd.
Ricordo un racconto del direttore della ‘zine che state leggendo, che per uno di questi show ospitò in casa sua Arrington: prima di andare a dormire gli fu chiesto semplicemente ‘un bicchiere di acqua e limone’ per depurarsi; ricordo la mia ragazza inviperita al ritorno da un giro in auto sulla costa amalfitana quando, appisolatasi, si risvegliò a causa della musica nonostante mi premurai di tenere basso il volume proprio per evitarlo: era un cd degli Old Time Relijun e mi disse velenosa ‘non permetterti mai più!’. Ricordo ancora gli amici che autisticamente urlavano in repeat ‘Carceratttooo…’ ossessionati dal brano ‘Carcerato’ presente sull’album La Sirena De Pecera ed infine ricordo Arrington che dopo un concerto mi disse che il padre era un pastore (o un prete, un mormone o qualcosa del genere).
Pensai allora di aver capito molte cose in merito alla band ma in realtà non avevo capito un cazzo, o meglio, avevo fatte mie solo le istanze primarie per cui ad un nome del genere non può non corrispondere una storia americana di famiglia deviata da un eccesso di fede.
Per quanto riguarda la musica invece, beh, anche lì avevo fatto dei semplici sillogismi per cui quella faccenda era un mix selvaggio di garage frenetico e sgangherato (riecco l’immaginario morboso da teen-ager off) e free-jazz feroce e spirituale, come quello di Albert Ayler, Ornette Coleman e Archie Sheep (del resto chi era questo davanti a me che si sbatteva tanto se non un negro dai capelli rossi?)
Poi c’è stata una vera e propria rimozione collettiva: io non ho più messo quei cd, gli amici non li menzionavano più e neanche loro si son troppo visti in giro.
Troppo ostici, disturbati, disturbanti, scarsamente fruibili, in poche parole improponibili nei circuiti di musica indie e alternativa perchè quella musica era ai confini con un qualcos’altro non troppo lontano da una sorta di terapia arcaica e tribale.
Qualche giorno fa mi arriva questo disco da recensire: guarda chi si rivede, Arrington de Dyoniso! Sì, ma con chi suona? Malaikat dan Singa ? Chi?
Ho scoperto allora che questo è un suo progetto già al secondo episodio e che la lingua utilizzata è l’indonesiano che il nostro ha imparato da autodidatta (del resto parla benissimo anche l’italiano), che i suoi compari sono altri artisti un pò matti come lui provenienti da altre bands che incidono per la stessa etichetta K Records di Olympia e che questo lavoro non è meno strano di quelli degli Old Time Relijun sebbene nel suo non-genere sia un’altra cosa.
Durante questi anni di (mia) latenza sembra che De Dyoniso non abbia fatto altro che continuare a curare i suoi interessi artistico/spirituali (etnomusicologia, musicoterapia, pittura, danza Butoh…) e questo lo si percepisce anche dai suoi quadri, speculari alla sua musica, colmi di immagini archetipiche in cui figure antropomorfe disegnate con un tratto ed una sensibilità infantili si muovono in una natura primordiale e allucinante formando dei collages colorati, talora teneri, a volte terribili.
L’album in questione invece si arrichisce dei suoni di altri mondi, ma non delle loro melodie. Non è per perpetrare le tradizioni che essi vengono utilizzati quanto per veicolarne le energie ed i colori e se Arrington De Dyoniso li pecepisce in suoni e strumenti della musica africana o asiatica li utilizzerà come farebbe uno sciamano per officiare un rituale.
Uno sciamano che non ha problemi ad usare la voce in modo ‘creativo’ come un moderno Captain Beefheart (anche se a qualcuno tale voce scorticata potrebbe generare una sensazione estremamente prossima all’angoscia, visto anche il linguaggio utilizzato che non permette di distinguere se si tratta di preghiere o anatemi) e gli strumenti a fiato come i Suicide usavano i sintetizzatori, e cioè in modo violento, reiterato e compulsivo.
Kerasukan usa una sola nota per 3 minuti e 34 secondi e a ben pensarci, se non ci fosse questa voce rivolta-coscienze incomprensibile ed a tratti anche un pò rompicoglioni, le basi musicali sarebbero momenti post-punk neanche troppo irriconoscibili dal nostro orecchio. Altro esempio è Aku di Penjara dove sembra di vedere tra i fumi di un ashram le sagome dei Fall e dei Pere Ubu. Bianglala ha una chitarrina ritmata che potrebbe essere quella di una giovane pop-band inglese di diciassette anni infatuata dal Pop Group e dai P.I.L.
Ibis Atas Iblis ha uno stupendo riff che sostituisce alla potenza degli amplificatori la forza evocativa dei suoni legnosi e ferrosi degli strumenti utilizzati, la voce è trattata elettronicamente fino a trasformarsi in un gorgo di pazzia e grazie all’ausilio dei fiati prende vita qualcosa di non dissimile ai Naked City di John Zorn, trapiantati da New York alla steppa mongola, ovviamente.
Che Madu Mahadasyat sembri una rivisitazione di Break On Through dei Doors è evidente anche ad un bambino..thai (e Perawan Berawan è la Wild Thing che sognerebbe di sentire Mark E. Smith). E così via.
Se si è disposti ad accorgersi di queste piccole cose nascoste tra le pieghe e a mettere un pò da parte le cognizioni musicali che anni di ascolti più o meno fighetti vi hanno rafforzato, si possono anche scoprire cose nuove e (a volte) divertenti. Altrimenti non fa niente, credo che Arrington De Dyoniso se ne faccia facilmente una ragione.
Arrington de Dionyso’s Malaikat dan Singa pt.3 from the archiver on Vimeo.
Autore: A. Giulio Magliulo
www.myspace.com/arringtondedionyso – www.krecs.com/oldtimerelijun