Fra quindici giorni circa Nicola Manzan sarà in tour in Italia a ricordare con il suo hardcore terrorista una delle pagine più drammatiche della storia contemporanea italiana: le stragi della banda della Uno Bianca. Il suo lavoro, il quarto, infatti, si intitola proprio “Uno Bianca”, con 27 episodi che rievocano 26 degli oltre cento crimini commessi dai cinque criminali, tra i quali militavano i fratelli Savi, che erano poliziotti. Il 27° episodio rievoca il suicidio del padre del fratelli Savi, che si tolse la vita poco dopo l’arresto dei figli. Manzan si è mostrato molto disponibile a rispondere alle domande nelle quali si è sviscerata la storia della Uno bianca e parallelamente della nascita di questo disco.
Queste le tappe del tour:
12-03-2014 Pesaro – Dalla Cira
13-03-2014 Roma – Circolo degli Artisti @ @Woodworm Festival
14-03-2014 Bologna Locomotiv club @ Woodworm Festival
15-03-2014 Torino – Blah Blah
18-03-2014 Perugia – Kandinsky Pub
21-03-2014 Conegliano Veneto (TV) – Apartaménto Hoffman
24-03-2014 Cremona – Il Fico
28-03-2014 Arezzo – Karemaski Multi Art Lab
29-03-2014 Milano – Lo Fi Milano
04-04-2014 Prato – Controsenso
05-04-2014 Padova – Studio 2
11-04-2014 Piazenza – Sound Bonico
12-04-2014 Vercelli – Officine Sonore
18-04-2014 Sarno (SA) – Blubemolle
19-04-2014 Terni – Centro Di Palmetta
24-04-2014 Bolzano – Sudwerk
Partiamo con una domanda ‘impegnativa’. Ti dico subito che in questo lavoro ho percepito uno sfondo molto politico.
Tutta la storia della Uno Bianca ha un risvolto politico molto forte. Sono usciti sulla vicenda molti libri, uno in particolare si intitola “Uno bianca. Trame nere” (di Antonella Beccaria, ed. Stampalternativa), in cui si parte dal presupposto che i fratelli Savi sono nati in una famiglia di destra e pare che questo li abbia portati a sviluppare tutte azioni di destra, con collusioni con Falange Armata e con altre frange nere del terrorismo. Io sinceramente non riesco a valutare, non ho i mezzi. A me semplicemente fa paura questa storia in generale, perché è terrificante, e ho lasciato perdere tutto l’aspetto politico.
La lettura, forse forzata, che do di questo disco è che in qualche modo il terrorismo non è necessario che venga dall’esterno, ma ce lo possiamo anche creare in casa. La mia è una lettura ad ampio raggio, dato che secondo me questa vicenda ci dice proprio che il terrorismo ce lo possiamo coltivare in casa, addirittura dentro le forze dell’ordine.
Infatti, questo è lo stimolo di base di tutta questa storia. Le persone che dovrebbero tutelare la nostra sicurezza, sono quelle che ci ammazzano, perché le ho guardate in faccia, perché ero lì. Mi viene da ridere quando quelli che pensano che l’immigrazione sia un problema sono gli stessi che ammazzano i propri connazionali. Siamo alla follia più totale. Non c’è bisogno di cercare un nemico fuori. Il nemico è la mancanza di valori. La mancanza del rispetto per la vita umana. Quando sei governato dal dio denaro è terrore puro. Questa lettura è pertinente. Il mio voleva essere un monito: ‘attenzione’! Se non hai rispetto per la vita il mondo diventa un inferno. Stiamo attenti.
Perché hai scelto in questo momento di fare un disco sulla Uno Bianca?
Era un disco che avevo in mente da diversi anni. Dai primi giorni che mi sono trasferito a Bologna, quando casualmente sono finito al quartiere Pilastro, non sapendo che ero lì. Quando mi è stato detto dove ero mi è venuta in mente la ‘strage del Pilastro’ e quando sono tornato a casa in TV c’era un’intervista ad uno dei fratelli Savi. La prima cosa che ho pensato era di fare un disco su questa vicenda. Ti parlo di anni precedenti a Bologna Violenta, in anni non sospetti. Quando è nato il progetto Bologna Violenta questa cosa mi era rimasta in testa. La vicenda mi ha incuriosito, perché sono del ’76, quindi la cosa me la ricordo. Mio fratello, in quel periodo stava facendo la domanda per entrare nei carabinieri, quando c’è stata la strage del Pilastro. Sono cose casuali, ma che ti segnano. Quindi con Bologna Violenta ho sempre voluto rappresentare la parte più brutta e violenta di Bologna, non quella freakkettona. Volevo raccontare la parte triste di Bologna e questa è una di quelle.
Perché rievocare un incubo e riaprire una ferita ancora poco rimarginata nel cuore e nelle paure degli italiani?
È una ferita ancora aperta, perché ci sono ancora dei processi in corso. Alcuni della banda sono usciti. I familiari delle vittime sono preoccupati, perché hanno ricevuto minacce. È una storia ancora aperta che fa ancora star male la gente. Io voglio lanciare messaggi con la musica. Bologna è la mia città adottiva e mi piace raccontare storie in musica. Se devo raccontare la parte più tragica di una città lo faccio con le sue storie. Nei dischi precedenti come il mio secondo “Il nuovissimo mondo” è il racconto delle storie terribili nel mondo e dicevano cose brutali, anche se facevano ridere, ma facevano anche pensare. Adesso che sono diventato più grande ho provato ad affrontare solo con serietà un argomento pesante, perché i più giovani non si ricordano di questa storia. Tutto per sentito dire. Secondo me è una cosa che va ricordata.
Perché secondo te va ricordata ai più giovani?
Perché deve essere un monito a come si vive. La storia deve insegnare a non ripetere gli errori, anche perché ci sono ancora poliziotti che ammazzano e gente che uccide per cento euro.
Come mai la scelta di quei 26 atti criminali, dato che il 27° episodio tratta del suicidio del padre dei Savi, sugli oltre cento crimini commessi dalla banda?
È stata una scelta ponderata. Ho messo il primo e l’ultimo colpo ad aprire e a chiudere il disco, a parte il suicidio del padre dei Savi. Ho fatto una scelta, per me molto significativa, nel senso che ho scelto gli atti in cui ci sono stati molti feriti e molti morti e quelli in cui la banda non ha avuto alcun guadagno, perché sono i più assurdi. Posso capire che uno uccida per un miliardo, invece sparare sulla folla e non prendere niente, per quel che mi riguarda è assurdo, significa che ‘hai proprio sbagliato tutto nella vita’. Non c’è niente di giusto. Andando a rivedere ho constatato che quelli che ho scelto erano anche fra gli episodi più eclatanti. Sono anche quelli che vengono riportati nelle varie traduzioni, però di base ho scelto quelli più inutili.
L’utilizzo delle campane è inquietante, sembra che danno il ritmo dei crimini commessi.
In pratica si. Se ascolti il disco, leggendo la guida all’ascolto, puoi intuire la struttura del pezzo, perché i pezzi sono strutturati su quanto è successo. Ad esempio arriva la macchina a gran velocità, al pezzo num. 14 e c’è un certo suono, poi ci sono le voci di gente che si parla. Ci sono tutti gli spari. Dal vivo avrò i visuals con i flash degli spari. Quindi la struttura è abbastanza rigorosa di quanto è successo. Le campane sono quasi sempre dopo uno sparo e quindi hai la percezione che uno è morto. Sono racconti molto dettagliati di come sono successe le cose. Quindi ho cercato, anche con un po’ di fantasia, di fare la colonna sonora di quanto probabilmente è successo. Le campane quindi segnano i morti.
Hai fatto una ricerca nelle biblioteche o nelle teche dei giornali dell’epoca per avere una documentazione così precisa?
Ho trovato tante cose in internet. Non ho avuto la possibilità di andare ad informarmi sui giornali. C’è talmente tanta roba che ci sarebbero voluti 15 anni soltanto per raccogliere il materiale. Poi con i libri che raccontano molto bene i fatti. Ci sono addirittura dei documenti della polizia con date, nomi dei morti.
Quanto tempo ci ha messo a reperire il materiale? È stato un lavoro lungo?
Si è stato abbastanza lungo. Nel 2009 ho cominciato a leggere le prime cose, ho comprato dei libri e ho cominciato a pensare come strutturare un libro del genere. Mi piaceva la cosa, ma non sapevo come renderla in musica. Non ero pronto a livello umano. Intanto ho letto, mi sono documentato. L’idea mi è venuta nel 2003, nel 2007 ho cominciato a pensare di farci un disco e nel 2009 ho iniziato a studiarci.
Come hai lavorato in studio per giungere ad evocare un senso di terrore? Quali sono le dinamiche che ti si sono attivate nel cervello per creare questo grande senso di paura?
Io leggo la storia, me la riscrivo. Magari vado a vedere dei video su youtube. Ho cercato di immaginarmi come poteva essere in musica. Stavo per ore col cervello per aria a pensare. Io ho un approccio molto diretto con le registrazioni. Comincio con una batteria, che mi dà una struttura del pezzo, quindi anche gli spari, poi con la chitarra ho creato un ambito armonico che potesse passare dalla tranquillità della gente al bar a momenti di terrore o di follia totale. È stato un processo creativo.
Hai fatto tutto da solo?
Si alla fine si. Ho uno studio a casa. La mia compagna mi aiuta per le registrazioni.
In quanto tempo hai preparato il disco?
In quattro mesi.
La vicenda della Uno bianca può essere anche letto come l’ultimo colpo di coda delle stragi di Stato?
Non so se erano stragi di stato. Di sicuro gli organi competenti non sono stati in grado di fare il loro lavoro che stavano massacrando le persone in giro, che erano sotto i loro occhi. Avevano tutte le prove e bastava andare a scavare un pelo sotto la superficie. Considera che il giudice Spinosa sostiene ancora che la uno bianca era legata alla mafia, è colui che dopo la strage del Pilastro ha arrestato alcuni abitanti del quartiere che non c’entravano niente e continua a sostenere che erano amici dei Savi. Lì hanno sbagliato tutti e lui è l’unico che continua a sostenere di non aver sbagliato. Quindi lo Stato non è stato sufficientemente attento, ha sbagliato proprio la mira.
O forse non ha voluto azzeccare la mira?
Beh si. Accettare la sconfitta molto pesante. Come fai ad ammettere di aver fatto un errore così clamoroso? Se fossi lo Stato ammetterei di aver sbagliato. È una questione molto delicata c’erano di mezzo la politica, la magistratura, la polizia. È una questione molto complessa.
Quando inizia il tour?
Il 13 marzo, ma il faccio una data zero con i Cut a Pesaro il 12 marzo e poi faccio Milano, Torino, Arezzo, Conegliano, Padova. Faccio un primo giro e poi vedo come andare avanti.
Infine. Il mensile Rumore recensendo il tuo lavoro, a firma di Maurizio Blatto, ha espresso una critica tra l’ironico e il feroce, lecita per carità, che però ha fatto scaturire una piccola bagarre mediatica su vari profili social net di addetti ai lavori, anche con tuoi interventi puntuali spesso a sdrammatizzare. Hai modo qui di esprimere liberamente la tua opinione sulla critica italiana di settore, pregi e difetti o semplicemente il tuo punto di vista sulle dinamiche che oggi caratterizzano il giornalismo musicale.
Sono dell’idea che i giornalisti o critici musicali debbano scrivere ciò che pensano sui dischi che devono recensire. Purtroppo, però, capita che venga dato da recensire un disco che non rientra nei gusti musicali del giornalista in questione (nel senso di: non ascolta quel genere di musica). Questo fa sì spesso che la recensione sia sommaria e fatta “controvoglia”, commentando il lavoro con molta superficialità, senza informazioni che possano essere interessanti per chi legge (sia nel bene che nel male, ovviamente).
Secondo la mia opinione questo modo di agire abbassa molto il livello di quello che si può trovare nei (pochi) mensili di musica rimasti, e questo è davvero un peccato. Il mio è stato un caso particolare, non credo che questo sia quello che succede per tutte le recensioni, però fa riflettere sulle dinamiche spesso errate di chi deve parlare di musica. Poi ci sono anche casi più eclatanti, come i giornalisti del Resto del Carlino che hanno parlato sommariamente, ma in maniera molto critica, del mio disco senza averlo ascoltato, nonostante io abbia mandato i link per scaricare tutto ciò che poteva essere utile per parlare di me e del mio disco.
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autore: Vittorio Lannutti