Il remix è la seconda vita di un brano, come ci dice Marco Mancassola in Last Love Parade, saggio sulla cultura dance e elettronica. È il momento in cui la canzone si spoglia dai panni materni, affidandosi, nuda, alle manipolazione più varie. Passa sotto le mani di altri che decideranno se limitarsi a seguirne la traccia principale o rivoltarla come un calzino. È ormai quasi una moda, un gioco diciamo, affidare alle mani di sapienti dj singole canzoni, se non interi album.
E non ha rinunciato all’esperienza neanche My Brightest Diamond, nome dietro al quale si nasconde la voce melodiosa di Shara Worden, che chiama vari artisti internazionali a cui affida i brani (tranne uno) di Bring me the workhouse, l’esordio che nel 2006 l’aveva portata all’attenzione del grande pubblico. Non è riuscita a farne a meno, e così quello che ne è uscito fuori lo potete trovare in Tear it down, uscito per la Asthmatic Kitty Records.
E allora largo a Alias, Murcof, Lusine e tanti altri nomi di spessore, anche se non sempre le tracce mantengono uno standard alto, soprattutto quelle mixate un paio di volte.
È un calderone di suoni e influenze questo album, con un’alternanza tra le tracce che si mantengono più fedeli all’originale e altre che se ne discostano, anche troppo, a volte. Se proprio una costante deve esserci, però, si saranno detti i dj’s, quella deve essere la voce della Worden.
Buono l’esordio di Alias con Golden Star e Lusine con Workhouse, e anche Stakka he fa una buona rilettura, in chiave trip hop, di Disappear. La canzone, Freakout (ma giuro che noi non c’entriamo nulla!) che con la sua ripetizione ossessiva “It’s time to tear it down”, dà il titolo all’album è modificata completamente, rinascendo in chiave house, da Gold Chains Panique, ma i risultati non sono stupefacenti.
Dragonfly perde la morbidezza del violino iniziale, ma si mantiene, nel remix di Murcof, sempre grazie alla bella voce della Worden, e non male è anche Something of an End. Il resto, diciamo, vivacchia.
Insomma con house, glitch, ambient e chi più ne ha più ne metta l’album galleggia in un limbo.
È abbastanza divertente, comunque, vedere come il brano cambi e si modifichi, rinascendo, appunto, in un’altra canzone, osservare il cambiamento che ciascun artista apporta a questa, che spesso dell’originale mantiene poco o nulla.
Che dire, questo lavoro ci sembra un mix tra la volontà di riscoprirsi e la voglia di svagarsi con un simpatico divertissement. Se vi è piaciuto Bring me the workhouse, questo è un buon motivo per riascoltarlo in una versione alternativa, altrimenti, non vi strapperete i capelli per esservelo fatto sfuggire.
Autore: Francesco Raiola