Se c’è una band che necessita di essere ascoltata con la massima attenzione onde poterne catturarne l’essenza ed evitare che non lasci traccia, questa risponde al nome di Califone. Ho perso ormai conto, tra dischi e live, delle occasioni in cui ho trattato di Rutili, Massarella e soci. La storia dovreste quindi conoscerla già. Meno nota invece è di sicuro la storia di Heron King, divinità druida nel cui costante timore vivevano i Britanni all’epoca della dominazione dei Romani. I quali, farabutti, ne utilizzarono le spoglie per fare uno scherzo alle tribù celtiche che li stavano assediando, farli morire di paura e rintuzzare con successo i loro assalti.
Perchè Tim Rutili abbia utilizzato questa misconosciuta figura è presto detto. Heron, che si materializza come gigante metà uomo (parte bassa) e metà uccello (parte alta), ha fatto spesso visita a Tim nel mondo dei sogni. Non con quel nome, però. In sostanza Tim ha scoperto per caso che il suo “mostro” onirico aveva questa sorta di “precedente storico”. Da lì è partita subito la sua macchina creativa. Che, per come la conosciamo, ben poco ha a che vedere con questa figura antropo-piumata. Ma non temete. Tim non si è avventurato su improbabili sperimentazioni con la musica celtica. “Heron King Blues” riparte esattamente da fin dove lo stupendo predecessore “Quicksand/Cradlesnakes” si era spinto. Heron non è che un’ispirazione, un nome da dare a sogni, paure, preghiere, illusioni quando trovano espressione in musica.
La sua musica. Quella gestalt di stili che si confondono tra di loro per dar vita a forme ambigue, diversamente definibili a seconda delle prospettive e delle priorità che i nostri sensi stabiliscono in sede di percezione (Rorschach test, avete presente): elettro-folk o experimental blues? Passato con lo sguardo proteso avanti o futuro che ripercorre il sentiero appena lasciatosi alle spalle? Nessuno può stabilirlo.
E comunque, al di là di ogni chiave di lettura prettamente “sperimentale”, i Califone (qui coadiuvati da Michael Krassner, oltre che, come nel disco dello scorso anno, da Jim Becker e Joe Adamik) non staccano mai l’interruttore del “circuito” canzone. Nel senso che i brani, secondo la cennata logica “gestaltica”, mantengono un certo coefficiente pop. Rutili usa (poco) la voce, anche se solo per dar vita a versi isolati o litanie testuali; le melodie ci sono, anche se in forma ricercatamente embrionale; l’additivo tecnologico si manifesta anche come “bum-cha” pseudo-dozzinal-danzereccio (‘Sisters Drunk on Each Other’).
Forse ciò che ricorderemo di più sono le incredibili esibizioni percussive (nel senso degli strumenti-oggetti utilizzati) di Ben Massarella, oppure il rumoroso e catartico quarto d’ora della conclusiva “title-jam” (ma c’è anche una breve unlisted track a seguire). Ma quano detto prima non risulta superfluo nè lezioso. E’ qualcosa di cui abbiamo bisogno per credere che tecnologia e tradizione, semplicità e complessità possano concretamente coesistere in uno stesso progetto.
Autore: Bob Villani