“La cornice è la morte sua”, diceva Totò, per cui viene da pensare che chi ha tirato su Galleria Toledo debba aver sognato che un giorno su quel palco intimo e soffuso ci sarebbe salito Smog.
O quantomeno il suo alter-ego Bill Callahan. E chissà quante volte Wakeupandream si è svegliato con in testa il sogno di averlo in scena per le sue obSESSIONS. Così, per il finale della rassegna, il fumoso cantautore si materializza in carne, ossa e piedi scalzi. Peccato che la noia domenicale, coi suoi pranzetti leggeri, deve aver fiaccato i più, portando costoro a snobbare proprio colui che del tedio ha fatto un’arte. E a sbagliare. Perché Callahan – a dispetto dell’ultima prescindibile prova discografica, Woke on a Whalehart – è in gran forma. La sua esibizione è preceduta da un giovane cantastorie scozzese, Alasdair Roberts, che rispolvera il cantautorato folk celtico, acustico, e affronta la platea con scioltezza tra fluide note di un’eccellente chitarra e una voce, non sempre all’altezza, intenta a scandire scioglilingua e filastrocche senza tempo. Torniamo a Smog/ Callahan: si fa accompagnare da una vera e propria back-band, un trio di Austin, gli Horse + Donkey e inizia con Teenage Spaceship da Knock Knock, il cui mood depresso (Ero un fumo nero adolescenziale/ Attaccato al cielo) è appena stemperato dal vigore delle chitarre. Si passa per From the river to the sea e Diamond dancer, molto più convincenti ed energiche che su disco (l’ultimo). Poi è la volta di un trittico proveniente dal sottovalutato A river ain’t too much to love: la sostenuta I feel like the mother of the world (Dio è una parola/ E la discussione finisce lì), in cui la band fa sfoggio della sua perizia, diluendo e reiterando forme country folk secondo schemi e dettami del sound di Chicago: il basso di Oliver Valdes insiste sulle stesse note facendo il paio coi riff scarni di Bill, la solista di Jaime Zuverza svaria impeccabile, il drumming atipico di Luis Martinez non nasconde ascendenze jazz. Say valley maker col suo lento incedere da brividi e la confidenziale Rock bottom riser regalano i momenti più toccanti: in entrambe ricorre il fiume come metafora delle nostre vite e dei vani sforzi per sottrarci alle sue insidie. E nulla è più lapidario e credibile della voce di Bill, calda e cinica, matura come il legno di un vecchio violoncello. Quindi i tipici stilemi post-rock vengono barattati con droni sonici, in particolare in coda ai brani Natural decline e Cold blooded old times. Callahan è a suo agio, al punto che balla goffo sul posto e si concede il lusso di una battuta col pubblico: “Do you like my feet?”. Le pennate sgraziate della chitarra ci introducono alla tragiche visioni di Blood red bird e cadono milioni di mele rosse. Like sycamore lascia entrare la primavera ed è un gran bel sentire nell’intreccio tra la ritmica di Bill e i ricami di Zuverza. In chiusura di concerto, e di una volontaria trilogia sul sangue, si aggrega anche Roberts con la sua sei corde e una bottiglia per svisare, e il mantra di Blood flow si avvita su se stesso come un vortice. L’impressione alla fine è che Callahan, anche per via di quella voce sempre più profonda e baritonale, sia ormai un classico americano – nel senso del whiskey torbato – arrangiatore pop maturo, da affiancare senza indugi ai grandi a cui è sempre stato accostato (Johnny Cash, Lou Reed, e in particolare Leonard Cohen), pur non avendo un grammo della loro celebrità. O meglio, maturo e fine arrangiatore Callahan – volendo escludere gli esordi in bassa fedeltà, quando il riferimento era piuttosto Daniel Johnston – lo è sempre stato. È di tutta evidenza che Smog appartiene a un’altra storia, una cult-story che attraversa l’America per rotte oblique e diagonali, fatta di figure schive e inafferrabili come Will Oldham, M. Ward, Jason Molina, la Handsome Family e altri cavalieri inesistenti che calcano i palchi con nudità di piedi e volentieri si sottraggono alle abbacinanti luci della ribalta.
Autore: Fabio Astore
www.myspace.com/smoggertone – www.myspace.com/toomuchtolove