Ma l’arte, in particolare l’arte pubblica, ha una sua utilità, che non sia puramente estetica? Ovvero, può esercitare un ruolo (attivo) nell’ambito di un processo di trasformazione urbana – laddove per urbana non si intende meramente urbanistico-architettonica, ma cittadina, e quindi anche dei suoi abitanti?
La prima considerazione che mi viene in mente, è che l’arte – sempre e comunque – ci interroga, e lo fa in modo diretto e personale. La sua azione, quindi, si rivolge – e si svolge – verso la persona, pertanto ogni sua valenza e capacità sociale passa attraverso il singolo.
Una comunità (urbana) del resto è composta da un insieme di singolarità, con un minimo comun denominatore culturale, che è più o meno fortemente segnato dall’essere la comunità di quella specifica città.
Un arte pubblica, quindi, deve necessariamente indurre a far crescere il senso di appartenenza, cioè quel legame culturale ed impersonale che accomuna i cittadini e la città.
Deve cioè innanzitutto dialogare, con entrambe. Stabilire una relazione dialettica, con gli abitanti ma anche con l’abitato, ovvero con il territorio su cui insiste.
E la difficoltà maggiore che incontra, già proprio nello stabilire questo dialogo, consiste nel suo intervenire per trasformare il paesaggio. Il paesaggio urbano, infatti, e persino indipendentemente dal suo (eventuale) degrado, è percepito come un’estensione della dimensione domestica, ha una sua capacità rassicurante, che nasce proprio dal suo essere scenografia quotidiana della vita. Ogni intervento, pertanto, deve necessariamente aggiungere qualcosa, per farsi perdonare questa rottura degli equilibri visivi preesistenti.
Nel caso dell’arte, diversamente dagli interventi meramente architettonici e/o urbanistici, questa funzione additiva – in mancanza di una utilità pratica – diventa ancor più necessaria.
Peraltro, in realtà l’intervento dell’arte pubblica si accompagna spesso a quello urbanistico, in un rapporto dialettico tra i due.
Se, dunque, l’arte pubblica va ad invadere un tessuto urbano, modificandone la trama, con la sua azione trasformatrice dello scenario urbano costringe il cittadino ad interrogarsi sul proprio rapporto con il (suo) territorio.
Questo rapporto, in particolare in Europa, dove le città hanno molto spesso una lunghissima storia alle spalle, risente fortemente della particolare stratificazione urbanistica – e quindi sociale e culturale. La stessa idea di centro storico è, ad esempio, peculiare delle città europee, e determina a sua volta una diversa idea (ed una diversa realtà) di periferia.
Un classico elemento di frizione, quindi, è l’innesto di elementi di assoluta contemporaneità in un contesto urbano fortemente caratterizzato, al contrario, dalla storicità.
Un esempio altamente significativo, anche se non si può parlare strettamente di arte pubblica, puòessere considerato il Centre Georges Pompidou di Parigi. Costruito sulla piazza di Beaubourg, adiacente al quartiere del Marais (che ha mantenuto l’architettura pre-rivoluzionaria e non ha conosciuto le trasformazioni ottocentesche del barone Haussmann) costituisce in effetti – e ben al di là della sua funzione pratica di istituzione per l’arte moderna e contemporanea e di biblioteca – un vero e proprio intervento artistico. La sua dimensione, la sua struttura architettonica a nudo, la colorazione audace, collocate in un contesto seicentesco, fecero dire al New York Times che il progetto di Renzo Piano “ha rovesciato l’architettura mondiale”. Inoltre, la presenza della vicina fontana Stravinsky, con le opere di Jean Tinguely e Niki de Saint-Phalle, sottolinea ulteriormente – in questo caso proprio con un intervento d’arte pubblica – la rottura con il contesto circostante.
É facile immaginare come questo genere di rottura possa generare conflitti, sul piano culturale prima di tutto. Eppure oggi, a distanza di quasi quarant’anni, per quanto la sua modernità sia ancora assolutamente tale, ed immediatamente percepibile, il Beaubourg appare del tutto integrato nell’ambiente urbano.
Il tempo, lo ha reso parte di quella scenografia quotidiana.
Sempre parlando di Parigi, si può ricordare anche la piramide in vetro di Ieoh Ming Pei al Louvre. Altro esempio di (fecondo) contrasto tra contemporaneo ed antico in ambito urbano. In entrambe i casi, è indubitabile come l’intervento non solo abbia aggiunto funzione, ma anche senso di identità. Del resto, il simbolo di Parigi non è forse la Tour Eiffel?
Questo tipo di intervento richiede però, da un lato, una capacità di visione, uno sguardo lungo, da parte della committenza pubblica, e dall’altro una capacità di dialogo di questa con la città. Ed ovviamente in primis con quella parte di società urbana che è maggiormente sensibile, ed interessata, alla sfera culturale.
Anche perchè questa costituisce il trait d’union con la città in senso più ampio, ed ha un ruolo importante nel veicolare il senso delle scelte operate.
Purtroppo, non sempre questa capacità di visione e di dialogo sono presenti.
Viene in mente, ad esempio, la recente querelle sull’intervento immaginato da William Kentridge sul lungotevere a Roma.
Proseguendo la serie di interventi che già da alcuni anni vengono realizzati su iniziativa di Tevereterno, il progetto di Kentridge prevede la realizzazione di un’opera lunga 550 metri sui muraglioni del Tevere compresi tra ponte Sisto e ponte Mazzini. Attraverso la pulitura selettiva della patina di smog e della pellicola biologica accumulatasi sulle superfici, l’artista sudafricano creerà oltre novanta figure, alte fino a nove metri, che si snoderanno come un enorme storyboard in cui trionfi e sconfitte dell’umanità, dall’età del mito fino ad oggi, formeranno una grande narrazione epica.
Un’intervento che, per dimensione, richiama il Jaya He concepito per il nuovo aereoporto di Mumbai (oltre 3 kilometri di esposizione d’arte).
Ebbene, per quanto si tratti di un intervento caratterizzato da assoluto rispetto per l’ambito d’intervento, con una fortissima coerenza con la dimensione storica dello stesso, e per di più interamente finanziato da privati, non sono mancate le polemiche da parte di alcune istituzioni.
Un’altro piano di frizione (quanto meno possibile), dopo quello antico/contemporaneo, tipico dei centri storici, è quello della riqualificazione urbana, a sua volta tipica delle periferie.
L’arte pubblica, collocata in contesti urbanisticamente e/o socialmente degradati, può essere considerata di per sé un intervento riqualificante? O deve, sempre e comunque, accompagnarsi ad interventi strutturali di rewamping del territorio?
Se, per un verso, è possibile che l’arte pubblica venga utilizzata (da amministrazioni pigre o tirchie…) come placebo sostitutivo rispetto ad interventi più significativi, per un altro è anche vero che – almeno a mio avviso – essa può talvolta parzialmente sopperire alla mancanza di questi interventi, che forse non ci sarebbero comunque.
Va da sé che, ovviamente, è preferibile che l’intervento dell’arte pubblica si accompagni alla riqualificazione urbana del sito, laddove necessaria. Ma è pur sempre vero che si tratterebbe di aggiungere al quadro una bella cornice; operazione opportuna, ma che non incide realmente sull’eventuale degrado circostante, limitandosi a creare una zona di rispetto intorno all’opera d’arte. Il che, paradossalmente, potrebbe ingenerare la sensazione che tutto l’intervento (artistico ed urbanistico) sia costruito intorno – e per – l’opera, piuttosto che per i cittadini.
Ciò che invece mi sembra opportuno sottolineare, è che anche per l’arte (pubblica) vale quel che è vero più in generale per la polis. Pensarla in modo segmentato, con approcci parziali sconnessi l’uno dall’altro, rischia fortemente di non produrre alcun risultato. Occorre al contrario pensare la città come un unicuum organico, nel doppio significato di tenuta insieme da relazioni articolate e reciproche (in quanto organizzata, dotata cioè di organi) e di organismo vivente.
L’intervento dell’arte pubblica sul territorio urbano, quindi, per divenire innesco e stimolo di processi sociali (positivi), necessita innanzitutto di essere concepita come parte di un percorso generale di trasformazione, che in quanto tale necessità di una visione d’insieme e di una volontà.
Tutto ciò, ovviamente, non certo in una logica da socialismo reale, quanto piuttosto come crescita sociale e culturale fondata sullo sviluppo di relazioni tra i soggetti presenti sul territorio.
autore: Enrico Tomaselli